La Corte di Cassazione ha dichiarato l’illegittimità di un patto di non concorrenza stipulato tra una banca e un ex dipendente, un contratto privo, sin dalla sottoscrizione, della specifica indicazione dei limiti in termini di spazio, tempo e oggetto, come invece prescritto dall’art. 2125 del Codice civile.
La pronuncia n. 11765/2025, pubblicata lo scorso 5 maggio, ribadisce alcuni principi chiave in materia, rilevanti non solo per gli addetti ai lavori, come ad esempio gli avvocati, ma anche per le aziende del settore creditizio e finanziario che si avvalgono di accordi che vietano ai lavoratori di prestare attività in favore di imprese concorrenti a seguito della cessazione del rapporto.
“Nel mondo del credito e dell’intermediazione finanziaria, dove le informazioni sensibili e i portafogli clienti sono centrali, il patto di non concorrenza è spesso uno strumento chiave per tutelare gli investimenti aziendali. Tuttavia, la decisione della Suprema Corte riafferma che non si può imporre un sacrificio professionale assoluto senza un corrispettivo adeguato e limiti ben definiti. Per le aziende del settore – banche, reti di consulenti, Sim, Sgr – si suggerisce dunque di rivedere i modelli contrattuali in uso, assicurandosi che i vincoli oggetto dei patti di non concorrenza rispettino i requisiti previsti dall’art. 2125 del Codice Civile”, spiega Stefano Petri, avvocato dello studio legale internazionale Dla Piper.
Il caso e la decisione
Nello specifico, un impiegato aveva sottoscritto con il proprio datore di lavoro un patto di non concorrenza che lo vincolava, per 12 mesi successivi alla cessazione del rapporto, a non svolgere attività — in forma subordinata, autonoma o imprenditoriale — nei settori del credito, assicurativo e finanziario, su un’area geografica molto ampia e indeterminata (“un’intera regione, oppure quella diversa in cui si fosse trovata la sede di lavoro al momento della cessazione del rapporto“, includendo inoltre “ogni area situata entro un raggio di 250 km dal luogo di lavoro, anche al di fuori della regione“), dietro versamento di un corrispettivo economico, in suo favore, pari al 10% della sua retribuzione annua lorda.
A seguito della cessazione del rapporto, il dipendente impugnava giudizialmente il patto di non concorrenza al fine di ottenerne una dichiarazione di nullità da parte dei giudici. Sia il Tribunale sia la Corte d’Appello accoglievano l’istanza dell’ex dipendente. Successivamente, la Cassazione confermava quanto già deciso nei precedenti gradi di giudizio.
“Il patto infatti doveva considerarsi nullo, innanzitutto per indeterminatezza territoriale (poiché la banca poteva unilateralmente ampliarne l’area applicativa), oltre che per compenso inadeguato rispetto al sacrificio richiesto – precisa Stefano Petri -. Si trattava, in sintesi, di due violazioni sostanziali dell’art. 2125 c.c., il quale impone che i patti limitativi della concorrenza siano determinati in termini di durata, luogo, oggetto e compenso: ciò al fine di non ledere, in modo eccessivo, la professionalità del lavoratore che, per un periodo successivo alla fine del rapporto di lavoro, sarà vincolato nello scegliere il proprio nuovo datore di lavoro”.
Implicazioni pratiche e possibili impatti per il settore del credito
“Il principio affermato dalla Cassazione trova diretta applicazione nei rapporti di lavoro subordinato. Ne consegue che, per il dipendente, un patto di non concorrenza non valido comporta la nullità totale delle pattuizioni ivi contenute, con la conseguenza che quest’ultimo non sarà vincolato a rispettare il contenuto del relativo accordo”, prosegue il legale dello studio internazionale Dla Piper.
Nel mondo del credito e dell’intermediazione finanziaria (e, comunque, in generale) le aziende (banche, reti di consulenti, Sim, Sgr) sono tenute a rispettare i requisiti previsti dall’art. 2125 del Codice Civile, che stabilisce che i patti di non concorrenza siano:
- temporalmente limitati: di norma non oltre i 12 mesi, anche se la legge consente un vincolo fino a 5 anni in caso di rapporto dirigenziale;
- geograficamente ben definiti: ad esempio, coincidenti con l’intero territorio italiano oppure con alcune regioni di esso;
- adeguatamente retribuiti alla luce delle predette limitazioni: in altre parole, il compenso in parola non dovrà essere puramente simbolico.
“Un eccesso di tutela, ma soprattutto di poca attenzione alla normativa applicabile, rischia dunque di essere giuridicamente inefficace, oltre che fonte di contenzioso. La pronuncia è anche un chiaro monito: strumenti standardizzati, imposti senza una valutazione del caso specifico, sono sempre più esposti a essere annullati in giudizio”, conclude Stefano Petri.