Fintech, parlano gli esperti del Cetif: “In futuro assisteremo a una crescente collaborazione tra intermediari del credito e società hi-tech”

FintechNumeri in costante aumento e crescente attenzione da parte di istituzioni, del mercato e di tutti gli stakeholder. Le conferme della portata rivoluzionaria che la fintech, intesa in senso generale come applicazione delle più avanzate tecnologie Ict al settore finanziario, avrà nei prossimi anni si moltiplicano di giorno in giorno. La digitalizzazione dei servizi finanziari, l’applicazione dell’intelligenza artificiale e della robotica e la tecnologia blockchain sono destinate a cambiare profondamente il modo di concepire e fare business, ponendo al tempo stesso nuove sfide sul fronte della sicurezza informatica. Parallelamente la rapidità con cui si sviluppano nuove tecnologie determina una continua ridefinizione dei confini e degli spazi della competizione tra il sempre maggior numero di soggetti in grado di offrire prodotti, strumenti e servizi relativi all’attività finanziaria. Rebus sic stantibus è difficile formulare previsioni attendibili sui possibili scenari futuri legati alla diffusione della finanza tecnologica.

Cetif LogoTra le realtà che, ormai da tempo, monitorano lo sviluppo della fintech c’è il Cetif, Centro di ricerca in tecnologie, innovazione e servizi finanziari dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, che da oltre venti anni svolge attività di ricerca, formazione e advisory sul settore bancario e assicurativo. “Il fenomeno fintech rappresenta sempre di più una reale opportunità per le banche e le compagnie assicurative in termini di innovazione di prodotti e servizi e in termini di raggiungimento più capillare della clientela. Siamo convinti che assisteremo a sempre maggiori livelli di collaborazione”, sottolinea Federico Rajola, direttore del Cetif  e professore ordinario di Organizzazione Aziendale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

Da alcuni anni il Cetif ha iniziato a prestare particolare attenzione al mondo della tecnofinanza, dando vita a un progetto chiamato FinTech Lighthouse. Il programma ha l’obiettivo di studiare le società fintech con una metodologia di analisi qualitativa, assegnando uno scoring, sulla base del quale le migliori aziende vengono presentate alle banche e alle compagnie assicurative che fanno parte del network del centro. “In una fase di profondo cambiamento tecnologico e di mercato nel settore finanziario, diventa necessario per tutti i player giocare un ruolo attivo. Il FinTech Lighthouse supporta concretamente questo nuovo ecosistema grazie all’analisi dello scenario competitivo e alla creazione di relazioni e sinergie per l’evoluzione del settore finanziario”, spiega Chiara Frigerio, segretario generale del Cetif e professore di Organizzazione Aziendale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 “L’obiettivo del progetto è non solo quello di mostrare modelli di business innovativi ma anche di stimolare conseguenti sinergie – illustra Clelia Maria Tosi, senior research manager del Cetif -. Un rapporto tra fintech e istituzioni di tipo collaborativo è sicuramente quello che premia maggiormente tutti i soggetti coinvolti, compresi i consumatori stessi”.

L’indagine del centro di ricerca si è concentrata in particolare sul social lending, elemento determinante del percorso evolutivo che interessa il settore finanziario. “Alla base dell’affermazione di quello che è conosciuto anche come peer to peer lending o prestito tra privati troviamo tre fattori – sottolinea Carlo La Rosa, research analyst del Cetif  –. In primo luogo, si deve considerare il contesto economico, che è quello della crisi, che ha portato con sé una contrazione dei prestiti da parte degli istituti bancari. Oggi le banche per concedere un prestito a una piccola e media impresa richiedono un numero crescente di informazioni, di sempre maggiore complessità. Questo chiaramente ha ridotto il numero dei finanziamenti erogati. Il secondo elemento importante è quello dei fattori abilitanti, che sono stati da un lato lo sviluppo di nuove tecnologie e dall’altro il contesto della sharing economy, che ha diffuso in tutta la popolazione i concetti di prestito e debito condiviso. Da ultimo è necessario tenere presenti le crescenti opportunità legate a questo strumento”.

Il social lending porta con sé una democratizzazione della concessione del credito e della creazione del debito. La democratizzazione dei prodotti finanziaria, però, non è necessariamente da valutare in modo positivo, perché può portare essere causa di distorsioni del sistema. Proprio per evitare tali distorsioni la Banca d’Italia definisce con precisione quelli che sono i soggetti che possono partecipare a questo nuovo mercato. Si tratta di soggetti che Palazzo Koch definisce gestori di piattaforma.

“La Banca d’Italia sottolinea che i soggetti che partecipano all’interno del circolo del social lending devono avere una rilevanza talmente tanto forte da poter impattare sia sulle clausole del contratto sia sul tasso di interesse – aggiunge La Rosa -. Le società che possiedono queste piattaforme devono essere registrate come soggetti autorizzati ai servizi di pagamento. Quando ci si scrive a un qualunque marketpalce di social landing si crea in realtà un conto di pagamento che verrà utilizzato dal prestatore di denaro per trasferire soldi al prenditore. Non si parla di credito dal punto di vista tecnico legale ma di fatto è un credito a tutti gli effetti”.

Una differenza fondamentale tra il credito bancario e il peer to peer landing sta nel rapporto paritetico tra i soggetti coinvolti nello scambio di denaro, totalmente assente nel primo caso.

Per quanto riguarda invece le funzioni svolte, gli intermediari si occupano della gestione dei rischi, della piattaforma, dei flussi e della reportistica. “Quando una persona si iscrive sulla piattaforma riceve un’analisi del profilo attraverso la quale riceve il proprio merito creditizio – specifica La Rosa -. Si tratta di lavoro molto simile a quello fatto dalle banche, con una differenza: per il 99,99% è del tutto automatizzato e gestito tramite algoritmi. Successivamente viene fatta una proposta di tasso di interesse, basandosi sull’analisi di una serie di caratteristiche. Fondamentalmente, se si tratta di una persona fisica, si richiede il reddito disponibile mentre nel caso di una persona giuridica ci si basa sul fatturato. Poi ci sono la gestione della piattaforma, che permette l’incontro tra la domanda e l’offerta, e dei flussi. Gli intermediari detengono i conti di pagamento sia dei prestatori che dei prenditori, traslando i prestiti dai primi ai secondi. L’ultima funzione svolta è la gestione della reportistica”.      

Il grande punto di forza del peer to peer e del peer to business è l’estrema rapidità nell’erogazione del credito. I tassi sono più alti rispetto ai finanziamenti tradizionali ma i soggetti sono disposti a sopportarlo a fronte della velocità con cui riescono a ottenere il denaro di cui hanno necessità.

I diversi modelli di social lending

Passando ad analizzare nel dettaglio le attività svolte dagli intermediari che si occupano di social lending, è possibile osservare due distinti ambiti: peer to peer e peer to business.

  • Peer to peer lending

Questo modello prevede più soggetti privati che si prestano denaro tra loro. Si tratta di un modello credit based: quando si registrano su una piattaforma i soggetti vedono secretata la propria identità. In questo sistema un creditore si vede assegnato un nick name univoco e presta denaro a più debitori che hanno a loro volta un nick name univoco. Fondamentale in questo sistema è il frazionamento del credito: un soggetto non presta denaro a un unico debitore ma a più prenditori.

“Non è possibile fornire stime precise relative al mercato italiano – sostiene La Rosa -. Sappiamo però che in Europa, nel 2015, il valore del peer to peer lending è stato di circa 5,4 miliardi di euro. Certamente si tratta di un fenomeno in rapidissima espansione”.

  • Peer to business lending

Può essere considerato una sorta di evoluzione del peer to peer lending. Si usano algoritmi analoghi ma più complessi. Rispetto a semplici soggetti privati, infatti, qui si parla di imprese e quindi sono necessarie, ad esempio, analisi degli andamenti del settore in cui questi soggetti operano e previsioni di stabilità. Non c’è un rapporto paritetico tra soggetti che prestano e prendono e non c’è anonimato.

“È possibile individuare tre macro categorie di peer to business – chiarisce La Rosa -. Credit based (ad esempio Borsa del credito), con un servizio molto simile a quello che viene offerto dalle banche ma non completamente sovrapposto, anzi più complementare; project based, in base al quale un’azienda chiede un prestito per finanziare uno specifico progetto; invoice trading, con un focus sulle fatture. In quest’ultimo caso gli algoritmi per la gestione si complicano ancora di più, perché di per sé, ovviamente, la fattura è solo un pezzo di carta ed è necessario analizzare l’azienda o le aziende che sono dietro quel foglio. In quest’ambito il giro d’affari in Italia a giugno 2017 era pari a 88 milioni di euro, 8 volte di più rispetto all’anno precedente”.