Osservatorio Cpi: Superbonus 110%, su spesa di 68,7 mld ne sono rientrati meno 14 in tasse

Logo Osservatorio CpiIl bilancio del Superbonus 110% è ben lungi dal pareggio per lo Stato: su una spesa di 68,7 miliardi ne sono rientrati, sotto forma di maggiori imposte e contributi sociali, poco meno di 14. A rilevarlo è l’Osservatorio sui conti pubblici italiani (Cpi) dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, istituto che promuove una migliore gestione della finanza pubblica e una maggiore comprensione dei conti pubblici nel nostro Paese e che si è soffermato su “Gli effetti del Superbonus 110% sull’economia e sul bilancio pubblico”.

La discrasia fra narrativa e attivazione degli investimenti

L’analisi si basa sui dati diffusi dall’Enea (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), secondo i quali il Superbonus 110%, dal momento della sua introduzione, a luglio 2020, fino a dicembre 2022 è costato 68,7 miliardi e ha attivato 62,5 miliardi di investimenti. “Nel dibattito pubblico, questi dati sono stati utilizzati per sostenere che il Superbonus 110% ha sorretto l’economia in questi anni; alcuni hanno addirittura argomentato che l’impulso all’economia sarebbe stato tanto forte da generare un gettito fiscale dello stesso ordine di grandezza della spesa sostenuta dallo Stato e che dunque il Superbonus si sarebbe autofinanziato”, così l’Osservatorio Cpi ricostruisce la narrativa sull’incentivo.

Secondo l’Osservatorio, nella migliore delle ipotesi, il Superbonus ha contribuito a incrementare la crescita del Pil dello 0,5% nel 2021 su una crescita totale del 7% e dello 0,9% nel 2022 su una crescita totale del 3,7%. “Si tratta di incrementi importanti, ma non tali da consentire di attribuire al Superbonus il grande rimbalzo dell’economia italiana dopo le chiusure del 2020. Il bilancio del Superbonus per lo Stato è ben lungi dal pareggio: su una spesa di 68,7 miliardi ne sono rientrati, sotto forma di maggiori imposte e contributi sociali, poco meno di 14. La riclassificazione di alcuni bonus decisa da Istat, in base ai criteri definiti da Eurostat, ha peggiorato il deficit degli anni dal 2020 al 2022, ma, anche in virtù del blocco deciso dal governo, migliora il deficit tendenziale del 2023 e degli anni successivi”, precisa l’analisi.

La riclassificazione Istat-Eurostat

Per giustificare il blocco dello sconto in fattura e della cessione dei crediti fiscali legati ai bonus edilizi, il governo ha chiamato in causa l’Eurostat. “Poteva anche non farlo dal momento che è evidente a tutti che quando paga un terzo, in questo caso lo Stato, le spese vanno fuori controllo, come in effetti è successo. In termini tecnici la questione è se un dato bonus è ‘pagabile’, con cui si intende che è una minore entrata certa dello Stato, oppure ‘non pagabile’. Esempi di crediti di imposta ‘non pagabili’ (sottinteso: con certezza) sono i bonus edilizi non cedibili: questi non sono pagabili con certezza perché non è detto che il contribuente abbia oggi e nei prossimi anni la capienza fiscale necessaria per usufruirne. Invece i bonus cedibili finiranno quasi certamente nel portafoglio di un operatore (banca o impresa) che ritiene di avere, oggi e nei prossimi anni, la possibilità di usufruirne; altrimenti non li comprerebbe. Questi vengono quindi riclassificati come spesa”, si legge ne Gli effetti del Superbonus 110% sull’economia e sul bilancio pubblico dell’Osservatorio Cpi.

Nella sostanza, secondo l’Osservatorio, Eurostat si preoccupa di contrastare due tentazioni ricorrenti dei governi: camuffare le maggiori spese come minori tasse e rinviare al futuro gli oneri presenti. “Una conseguenza della classificazione del bonus 110% e del bonus facciate come crediti ‘pagabili’, e dunque come spesa, è che occorre applicare il criterio della competenza economica e non quello della cassa. Il criterio della cassa è utilizzato in via di eccezione per alcune tasse in ragione della difficoltà di fornire statistiche tempestive basate sulla competenza. A sua volta il criterio della competenza economica comporta che l’intero sussidio venga contabilizzato nell’anno in cui sorge l’obbligazione per lo Stato. Di qui gli aumenti del deficit del 2020 (da 9,5% del Pil a 9,7%), del 2021 (da 7,2% a 9%) e del 2022 (dal 5,6% stimato dal governo nella NADEF a 8%). Si noti che il debito pubblico non viene ricalcolato perché (almeno nella definizione di Maastricht) dipende dal fabbisogno di cassa: le modifiche nella contabilizzazione modificano solo lo stock-flow adjustment, ossia la differenza fra variazione del debito e deficit. Il che, a scanso di equivoci, non vuol dire affatto, come invece qualcuno pensava di aver capito, che i crediti fiscali non costituiscano debito”, prosegue lo studio.

Secondo l’Osservatorio Cpi, il governo ha voluto evitare un peggioramento, potenzialmente di vari punti di Pil, del deficit 2023, causato dai crediti d’imposta riconosciuti nell’anno in corso; da qui la decisione di eliminare lo sconto in fattura e la cedibilità dei crediti che, oltre a rendere l’agevolazione meno appetibile, dovrebbe comportare il ritorno, per i nuovi crediti d’imposta, al vecchio criterio di classificazione; inoltre, questa decisone migliora in modo meccanico il disavanzo tendenziale di questo e dei prossimi anni (che scontava, nella precedente versione, minori entrate causate dal bonus edilizio). “Naturalmente la contabilità non può cambiare la sostanza economica delle cose, ma può indurre i mercati a chiedersi quante passività nascoste si annidano nei mille bonus che sono stati erogati ‘gratuitamente’ negli ultimi anni”, sottolinea.  

È evidente, in conclusione, per l’Osservatorio sui conti pubblici italiani che ora va trovata una soluzione ponte per salvare quei proprietari di case e quelle imprese che facevano affidamento sulla cedibilità dei crediti e che ora si trovano in grande difficoltà.